ULISSE
Ulisse è sbarcato. Ha i tratti somatici tipici di chi ha la pelle impressa di sale e sole. Conosce le correnti, le maree, le fasi della luna, sa dove il mare è più azzurro e più infido. Dalla terrazza tra mare e cielo che affaccia sulla baia di Ieranto, sembra chiedersi dove siano finite le mitiche sirene. Potrebbe essere accaduto che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Arma ancora più terribile. È qui nella baia di Ieranto che Omero colloca l’incontro tra Ulisse e quelle affascinanti creature, metà uccello, metà donna. Come nel mito, collocato in un tempo remoto, Ieranto continua ad essere oggi un luogo “lontano”, un luogo che, in quanto non facile da raggiungere, permette l’esperienza del silenzio, della distanza, della quiete. Il suo panorama è da conquistare passo dopo passo con sudore e calore. Il sentiero che conduce alla piccola baia non rivela anticipazioni, il Mediterraneo, però, non si nasconde, ma è dirompente e si dichiara con i suoi colori saturi e i profumi decisi. Poi, quasi improvvisamente, dopo un boschetto di carrubi appare all’improvviso la baia. Un momento d’intenso stupore e sindrome di Stendhal. E sotto l’ombra di un grande carrubo, il frinire delle cicale assopisce il calore della controra, quasi stordendolo e predisponendo l’animo all’abbandono onirico. Lungo il sentiero si intrecciano storie di streghe, sirene, monacielli, janare, che con un unguente prodigioso (dai racconti popolari l’aloe) spiccavano in volo sulla scopa per raggiungere Benevento. Le voci e le narrazioni sono tante, formando quell’unico paesaggio culturale che è Ieranto. Lo sguardo prima di raggiungere i faraglioni è fermato dalla vecchia cava di pietra. La storia, quella vera del 900, spezza ogni fiaba e leggenda. Gli eroici, ma non leggendari minatori, compresi i saraceni che qui giungevano, hanno penato, sudato per una ricerca disperata d’occupazione. Lacrime e pane, la “cava infernale” per chi da Capri scorgeva questo inferno paradisiaco.




