AIZOME
“Non si lavora per i soldi, ma si lavora per vivere” con un sorriso appena accennato spiega il signor Kōji Fujimoto mentre sua moglie, la signora Kōga, ci versa il caffè preparato in una tradizionale cucina giapponese con il focolare acceso. Siamo nel villaggio di Yanagidani, nell’area montuosa di Kumano, al confine tra le prefetture di Nara e di Wakayama. Un piccolo villaggio abitato da circa diciassette persone, che formano una piccola comunità che vive in armonia con la natura. Fuori, si ode appena lo scorrere del fiume e seduti al tavolo questa coppia di artigiani e musicisti mi raccontano, aprendo i cassetti della memoria, tutti i passi che li hanno portati a dedicare la propria vita alla pratica dell’aizome, antichissima tecnica di tintura all’indaco, da cui si ottiene un blu intenso, talmente amato dai giapponesi da essere identificato come “blu Giappone”. Seppur minacciata dalla produzione in serie a basso prezzo, quest’arte tradizionale giapponese, che raggiunge la sua massima fioritura nel periodo Edo, è stata capace di procedere fino ai nostri giorni, grazie ad artigiani che ritengono che la tradizione sia una necessità! Kōga è di Tōkyō mentre Kōji di Ōsaka, la passione per la musica li fa incontrare e da oltre venti anni continuano a suonare insieme. “Circa venti anni fa, ci siamo esibiti a Kyōto e prima di tornare a Tōkyō ci siamo fermati per un onsen a Totsukawa. Un forte tifone si avvicinava e abbiamo trovato riparo ad Hongu, a casa di un nostro amico. Il tifone distrusse le strade e non potendo tornare a casa restammo qui per dieci giorni. In seguito, ci trasferiamo in una vecchia casa a Nanairo” racconta il signor Koji. La coppia non guadagnava molto, non avendo un vero e proprio mestiere, e per necessità e per il desiderio di Kōji di lasciare la città per vivere in campagna iniziano a dedicarsi alla tintura per tirare avanti. Nasce l’idea di aprire un laboratorio che prende il nome del luogo in cui abitano: “Someya nanairo aizome” e nel 2001 segue il trasferimento a Kumano, dove portano avanti l’atelier, che continua a portare lo stesso nome, perché la coincidenza vuole che nelle vicinanze ci sia la diga “Nanairo” (parola che in giapponese significa "i sette colori dell'arcobaleno). Nelle campagne giapponesi disertate dai giovani si possono affittare delle case per poco denaro e restaurarle. Solitamente basta conoscere qualcuno, tutti si aiutano reciprocamente. Il signor Kōji per costruire la casa (esisteva solo la struttura del tetto) ha impiegato quattro anni, iniziando i lavori dal laboratorio per guadagnare qualche soldo per passare poi alla costruzione del resto dell’abitazione. “Mi sembrava di vivere in campeggio. Spesso mi tremavano le gambe per la paura di non farcela, ma non mi sono mai arreso” ricorda Kōji. “Non sapevamo niente di come si costruisse una casa, ma la gente del posto è gentile e ci ha aiutato fino alla fine” esclama la signora Kōga, mentre si allontana dal tavolo per fumare un’American Spirit.
Visitiamo il laboratorio, dove Kōji ci spiega il processo di lavorazione dell’indaco. Il liquido che si ricava dalla fermentazione della pianta, viene fatto ossidare e pian piano, da giallo verdognolo diviene blu intenso, quasi nero. A questo punto si blocca la fermentazione del prodotto riscaldandolo e poi se ne raccoglie la posa. Il pigmento allo stato puro è di un colore scurissimo, impenetrabile, ma con il passare del tempo si scopre che, invece di perdere tono, tende a vivificarsi. Un processo lungo che richiede pazienza, “bisogna aspettare che il tessuto si asciughi all’aria e occorrono più lavaggi nel liquido per ottenere quel blu” spiega Kōji, che preoccupato ci domanda più volte “nihongo wa daijoubu?” (il giapponese è ok?). I coniugi Fujimoto continuano a spiegare che si tratta di una tintura tutta al naturale senza sostanze chimiche “non avrebbe senso vivere all’interno della natura e inquinarla usando sostanze nocive. Per questa tintura l’acqua è fondamentale e l’acqua che scorre dalle montagne è purissima così come l’aria (kūki ga oishii), il cui ossigeno viene assorbito dall’indaco, che diventa azzurro nel processo di fermentazione” conclude Kōji. Anche dopo la tintura i microorganismi presenti nell’indaco continuano a sopravvivere ed indossare un panno “vivo”, spiega la signora Kōga, ha molti effetti benefici. Oltre alle sue qualità estetiche, l’indaco ha un altissimo potere antibatterico e termo-isolante, e per queste sue proprietà ci racconta che i kimono venivano custoditi in furoshiki indaco per proteggerli dagli insetti. I samurai indossavano sotto l’armatura stoffe indaco per disinfettare le infiammazioni delle eventuali ferite di guerra. Gli artigiani che praticano l’aizome sono solitamente molto fieri di portare avanti questa tradizionale e antica tecnica di tintura, per questo le loro mani tinte del colore indaco (come le mani della signora Kōga) diventano, forse, una sorta di riconoscimento ed emblema sociale. Prima di un ultimo saluto, visitiamo l’orto sul retro di casa dove la signora Kōga coltiva la pianta dell’indigofera e altre verdure. Campi protetti da reti per non permettere ai cinghiali, numerosi nell’area montana di Kumano, di rovinare il duro lavoro dei campi. “Abbiamo iniziato a coltivare la pianta dell’indigofera perché a causa dell’invecchiamento della popolazione era diventato sempre più difficile reperire la materia prima e senza di essa non potevamo portare avanti il nostro lavoro” spiega Kōga. Ritorniamo nella bellissima casa in legno per un ultimo saluto e qualche foto di ricordo di questo incontro, avvenuto in un remoto villaggio del Giappone, dove ancora pochi sono gli occidentali che passano per di qui e hanno la fortuna di ascoltare quest’affascinante racconto, fatto da una coppia che ha scelto di ritirarsi sulle montagne e condurre una vita quasi da eremiti. Un tempo una gattina, Nina chan, faceva compagnia a Kōji e Kōga san, ora non resta che una sua fotografia, riposta su di un mobile in legno.